Nel vortice della contemporaneità, dove il tempo si contorce e lo spazio si dilata in un’incessante danza digitale, ci troviamo a confrontarci con una nuova forma di esaurimento. Non più la stanchezza fisica dei nostri antenati industriali, ma un’astenia pervasiva che permea ogni fibra del nostro essere sociale e cognitivo. È in questo scenario che il pensiero di Byung-Chul Han, filosofo sudcoreano-tedesco, emerge come una lente attraverso cui scrutare le pieghe nascoste della nostra condizione postmoderna.
La “società della stanchezza”, concetto cardine elaborato da Han, assume oggi contorni ancora più definiti e inquietanti alla luce dell’esperienza pandemica che ha sconvolto gli equilibri globali. Il Covid-19 non ha solo ridisegnato le mappe del nostro vivere quotidiano, ma ha accelerato processi di trasformazione del lavoro che erano già in atto, portandoli a un punto di non ritorno.
In questa analisi, ci proponiamo di esplorare come la visione di Han si intrecci con la realtà lavorativa post-pandemica, utilizzando dati empirici per ancorare la riflessione filosofica al terreno concreto dell’esperienza collettiva.
Il paradosso dell’iper-connessione
Nel suo saggio “La società della stanchezza”, Han argomenta che l’eccesso di positività della società contemporanea genera una forma di violenza neuronale. L’imperativo del “dover fare”, amplificato dalle infinite possibilità offerte dalla tecnologia, si traduce in una esplorazione senza limiti che conduce all’esaurimento.
Questo paradosso si è acuito nel contesto lavorativo post-pandemico. Lo smart working, inizialmente percepito come una liberazione dai vincoli spazio-temporali dell’ufficio tradizionale, si è rivelato per molti una trappola di iper-connessione. Un sondaggio condotto da Gallup nel 2022 ha rivelato che il 70% dei lavoratori in modalità remota ha sperimentato sintomi di burnout, contro il 52% di coloro che lavorano in presenza.
L’abolizione dei confini tra spazio di lavoro e spazio domestico ha portato a una fusione tra tempo produttivo e tempo di vita, creando quello che potremmo definire un “panopticon digitale” dove il lavoratore è costantemente visibile e raggiungibile. Questa condizione di perenne disponibilità si traduce in un’incapacità di “staccare”, generando quella che Han chiama una “società dell’esaurimento nervoso”.
La frammentazione della produttività
Il postmodernismo ci ha insegnato a diffidare delle grandi narrazioni e a riconoscere la natura frammentaria e multipla dell’identità. Nel contesto lavorativo post-pandemico, questa frammentazione si manifesta in modo particolarmente acuto.
Il lavoratore contemporaneo si trova a dover gestire una molteplicità di ruoli e identità simultaneamente: professionista, genitore, partner, studente, tutto nello stesso spazio fisico e spesso nello stesso momento. Questa moltiplicazione dei sé genera una dispersione cognitiva che contribuisce alla sensazione di stanchezza cronica.
Uno studio pubblicato su “Nature Human Behaviour” nel 2023 ha evidenziato come il multitasking forzato dello smart working abbia portato a un decremento del 20% nella capacità di concentrazione prolungata tra i lavoratori. La frammentazione dell’attenzione si traduce in una frammentazione del sé, creando quello che potremmo definire un “lavoratore liquido”, riprendendo il concetto di “modernità liquida” di Zygmunt Bauman.
L’imperativo della prestazione
Han sostiene che la società contemporanea sia passata da un paradigma disciplinare a un paradigma della prestazione. Non più il potere prescrittivo di modelli standardizzati, ma il dovere della prestazione diventa l’imperativo categorico della nostra epoca. Questo si traduce in una forma di auto-sfruttamento che Han definisce più efficace di qualsiasi sfruttamento esterno.
Nel contesto lavorativo post-pandemico, la ricerca della prestazione si è intensificata. La paura della perdita del lavoro, combinata con la sensazione di dover “dimostrare” la propria produttività in assenza di supervisione diretta, ha portato molti lavoratori a intensificare i propri ritmi.
Un report di Microsoft del 2023 ha rivelato che l’orario di lavoro medio per gli utenti di Microsoft 365 è aumentato del 13% rispetto al periodo pre-pandemico, con un incremento significativo delle attività lavorative svolte al di fuori del normale orario d’ufficio.
Questa intensificazione del lavoro non si traduce necessariamente in maggiore produttività. Al contrario, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha riportato nel 2022 che l’aumento delle ore lavorate in modalità remota è inversamente proporzionale alla produttività effettiva, suggerendo che stiamo assistendo a una forma di “presenteismo digitale”.
La dissoluzione del tempo libero
Una delle conseguenze più insidiose della società della stanchezza è la dissoluzione del concetto stesso di tempo libero. Han argomenta che nella società della prestazione, anche il tempo libero viene colonizzato dalla logica produttiva. Il leisure non è più uno spazio di vera libertà, ma diventa funzionale al recupero delle energie per tornare produttivi.
Nel contesto post-pandemico, questa tendenza si è accentuata. Un report di Buffer nel 2023 ha rivelato che il 67% dei lavoratori in modalità remota fa fatica a “staccare” completamente dal lavoro durante i weekend o le vacanze. Il tempo libero diventa un’estensione del tempo lavorativo, trasformandosi in quello che potremmo chiamare “tempo di standby produttivo”.
Questa erosione del confine tra lavoro e non-lavoro contribuisce a quella che Han chiama “stanchezza del Sé”, una forma di esaurimento che va oltre la mera fatica fisica e coinvolge l’intera struttura identitaria dell’individuo.
L’illusione della libertà digitale
Il passaggio al lavoro remoto è stato spesso presentato come una forma di liberazione, un’opportunità per i lavoratori di gestire autonomamente il proprio tempo e spazio. Tuttavia, questa libertà si rivela spesso illusoria, mascherando nuove forme di controllo e auto-disciplina.
Han ci mette in guardia contro quella che definisce la “trasparenza”, ovvero l’illusione di una società senza segreti dove tutto è visibile e quindi controllabile. Nel contesto lavorativo, questa trasparenza si traduce in forme di monitoraggio digitale sempre più sofisticate.
Un report di Gartner del 2023 ha evidenziato che il 60% delle grandi aziende utilizza ora strumenti di monitoraggio della produttività per i lavoratori remoti, un aumento del 30% rispetto al 2019. Questi strumenti, che vanno dal tracciamento dei movimenti del mouse alla registrazione degli schermi, creano un ambiente di sorveglianza costante che contribuisce all’aumento dello stress e dell’ansia tra i lavoratori.
La presunta libertà dello smart working si trasforma così in una forma di sorveglianza cibernetica interiorizzata, dove il lavoratore diventa il proprio “guardiano” in un gioco di specchi che rammenta le basi di una società del controllo digitale.
La crisi della presenza
Ernesto de Martino parlava di “crisi della presenza” per descrivere la perdita del senso di sé nel mondo. La “presenza” evidenzia un legame indissolubile con il proprio mondo culturale composto da simboli, rituali e segni da riprodurre in maniera costante; nel momento in cui tale attività processuale viene meno, nasce una mancanza di relazione al simbolico che porta il soggetto a ricercare nuove forme di consolazione. Nel contesto lavorativo post-pandemico, possiamo osservare una nuova forma di crisi della presenza, mediata dalla tecnologia.
Le interazioni lavorative, sempre più mediate da schermi e piattaforme digitali, creano una sensazione di disconnessione e irrealtà. Un studio pubblicato su “Journal of Applied Psychology” nel 2023 ha rilevato che il 78% dei lavoratori in modalità remota sperimenta regolarmente una sensazione di “derealizzazione” durante le videoconferenze.
Questa crisi della presenza contribuisce a quella che Han chiama “società della trasparenza”, dove l’eccesso di visibilità paradossalmente ci rende invisibili a noi stessi e agli altri. Il lavoratore si trova così in uno stato di “assenza presente”, fisicamente isolato ma virtualmente sovraesposto.
L’alienazione digitale
Il concetto marxiano di alienazione assume nuove sfumature nell’era del lavoro digitale. Non più separato dal prodotto del suo lavoro in senso fisico, il lavoratore contemporaneo sperimenta una forma di alienazione più sottile e pervasiva attraverso l’avatar. Egli diventa la proiezione della perfomance digitale da esibire nelle innumerevoli call e da presentare per testimoniare il proprio rendimento in un contesto di produzione.
L’impossibilità di “toccare con mano” il risultato del proprio lavoro, la mancanza di interazioni umane dirette e la sensazione di essere sempre “on” creano una nuova forma di paranoia. Un sondaggio condotto da PwC nel 2023 ha rivelato che il 55% dei lavoratori in modalità remota sente di aver perso il senso di connessione con il proprio lavoro e con i colleghi.
Questa alienazione digitale si manifesta in quella che Han chiama “stanchezza dell’informazione”, un esaurimento cognitivo derivante dall’eccesso di stimoli e dall’impossibilità di processarli in modo significativo.
Ricerca di nuovi rituali
Di fronte a questa condizione di stanchezza generalizzata, emerge la necessità di nuovi rituali che possano restituire senso e struttura all’esperienza lavorativa. Han suggerisce che la società contemporanea soffre di una “povertà di rituali”, che ci priva di momenti di pausa e riflessione.
Nel contesto post-pandemico, assistiamo all’emergere spontaneo di nuovi rituali lavorativi: dalle “pause caffè virtuali” alle sessioni di meditazione online di gruppo. Un report di Deloitte del 2023 ha evidenziato che il 72% delle aziende sta implementando nuove pratiche per favorire il benessere mentale dei dipendenti, inclusi momenti di disconnessione programmata e attività di team building virtuale.
Questi tentativi di ritualizzazione del lavoro digitale possono essere visti come una risposta alla “società senza festa” di cui parla Han, un tentativo di reintrodurre momenti di pausa e celebrazione in un flusso lavorativo altrimenti ininterrotto.
Conclusioni
La “società della stanchezza” teorizzata da Byung-Chul Han trova nella realtà lavorativa post-pandemica una conferma e un’amplificazione. L’iper-connessione, la frammentazione del sé, l’imperativo della prestazione e la dissoluzione del tempo libero convergono in una condizione di esaurimento cronico che va ben oltre la mera fatica fisica.
La sfida che ci si pone davanti è quella di re-immaginare il lavoro non come un’attività di prestazione incessante, ma come un’esperienza integrata in un più ampio contesto di vita. Ciò richiede non solo cambiamenti organizzativi e tecnologici, ma una profonda riconfigurazione del nostro rapporto con il tempo, lo spazio e noi stessi.
In questa prospettiva, il pensiero di Han non si limita a diagnosticare il malessere contemporaneo, ma apre la strada a nuove possibilità di resistenza e reinvenzione. La “società della stanchezza” non è un destino ineluttabile, ma una condizione da cui è possibile emergere attraverso una rinnovata consapevolezza e la ricerca di nuove forme di connessione, presenza e significato.
Nel panorama frammentato e liquido della postmodernità, la sfida è quella di trovare nuovi ancoraggi, non più nelle grandi narrazioni del passato, ma in una miriade di micro-pratiche e rituali che possano restituire senso e valore all’esperienza lavorativa e, più in generale, all’esistenza umana nell’era digitale.