Le Grandi Dimissioni: il lavoro che(non) Cambia?

Le Grandi Dimissioni: il lavoro che(non) Cambia?

Nel tessuto sociale contemporaneo, il fenomeno delle “Grandi Dimissioni” si è imposto come un marcato segno dei tempi, una sorta di contestazione silenziosa che ha scosso le fondamenta del mondo del lavoro. Tale fenomeno evidenzia una ricerca di un rinnovato equilibrio tra il singolo e il lavoro decostruendo una narrazione “romantica” della produttività e tentando di rinnovare la modalità di prestazione lavorativa all’interno di una dimensione personale.

Alla fine del mondo per cosa si lavora?

La Fine dell’Illusione del Lavoro

Secondo Francesca Coin, le “Grandi Dimissioni” hanno rappresentato un sintomo collettivo di crescente disillusione del lavoro in un contesto pandemico che ha portato ad una ridefinizione del rapporto lavorativo delle persone in termini sovrastrutturali e strutturali.

Nel corso del 2021, negli Stati Uniti, si sono registrate circa 48 milioni di dimissioni, mentre nel 2022 il numero è salito a 50 milioni. In Italia, con un contesto economico diverso, le dimissioni sono state poco meno di 2 milioni nel 2021 e oltre 2 milioni nel 2022. Nel primo trimestre del 2023, si sono verificate circa mezzo milione di dimissioni, in linea con gli anni precedenti.

Il tema delle dimissioni, in generale, emerge da un modello lavorativo caratterizzato da una componente neo-liberista, sia all’interno dell’Italia che all’estero, tra settori produttivi, tra aree di negoziazione tra lavoratori e datori di “lavoro”.

L’era della globalizzazione ha introdotto una competizione diffusa tra varie aree produttive e una una corsa al ribasso dei costi di produzione, con conseguente pressione sui salari. Ciò ha comportato un’accettazione acritica da parte del lavoratore di condizioni pessime e produttività povera con ricadute sulla salute dei singoli; tali variabili emergevano all’interno di una narrazione del lavoro come strumento di autodeterminazione del singolo che motivava l’oggetto “lavoratore” nel continuare a fornire prestazioni mal pagate all’insegna di un obiettivo materiale da raggiungere per la visione meritocratica del mercato globale.

Con l’avvento della pandemia, la disaffezione verso tale sistema è diventata sempre più evidente, portando a una diffusa critica al modello produttivo e alle sue manifestazioni in diversi Paesi.

La Pandemia come Disvelamento

La Pandemia Covid-19 ha avuto un ruolo fondamentale come amplificatore di un malessere esistente nel mondo della produttività globale ma non ancora sufficientemente presente nel dibattito pubblico. La capacità disvelatrice della pandemia nei confronti del lavoro ha comportato una rielaborazione dei paradigmi produttivi destrutturando un’idea fordista del lavoro dove un impiego fosse un privilegio da preservare ad ogni costo.

La Pandemia ha portato alla ribalta determinati temi che, ancora oggi, istituzione e personalità pubbliche faticano a comprendere come se il Covid19 fosse stato una parentesi sistemica e non una parte del processo del vissuto umano. Ad esempio la pandemia ha contribuito ad una riflessione critica dell’identità del soggetto; qualsiasi essere umano non è solo un essere produttivo ma immerso in un insieme indefinito di relazioni, passioni e attitudini da ricercare e riscontrare nel proprio vissuto. Il lavoro risponde in parte alla definizione dell’identità del singolo inserito in meccanismi simbolici riflessivi pervasisi nel definire un sistema di credenze che chiamiamo comunemente “realtà.”

Tale presa di posizione identitaria, apre le porte alla sostenibilità, come quadro politico in cui inserire nuove forme di lavoro che tengano conto di occupazioni in grado di garantire il benessere materiale e psicologico delle persone in relazione con l’ambiente in cui si opera.

Considerando la Pandemia come un bug di sistema, non siamo stati in grado di disegnare un progetto di “nuova normalità” che avrebbe dovuto “renderci migliori” nella meta-narrazione del periodo pandemico.

Ad esempio, il tema del lavoro da remoto( conosciuto come “Smart Working”) è stato trattato come surrogato emergenziale nel periodo del Covid 19 per garantire la continuità lavorativa in un contesto di distanziamento fisico; a partire dal 1° aprile 2024, l’Italia è tornata alle regole ordinarie per il rapporto lavorativo. Questo significa che le semplificazioni introdotte durante l’emergenza sanitaria sono scadute e ora è necessario stipulare un accordo individuale tra datore di lavoro e dipendente per poter lavorare in modalità agile.

Lo smart working è stato considerato come una soluzione tampone in un momento di emergenza sanitaria, non come criterio fondamentale per costruire un percorso di rinnovamento delle forme lavorative.

Conclusioni

Per modellare i criteri strutturali della prestazione lavorativa, quindi, bisogna agire su un piano sovrastrutturale enunciando un agire comunicativo del lavoro differente che tenga conto di determinate variabili: identità e sostenibilità.

Il tema delle “Grandi Dimissioni” è un evento da prendere in considerazioni per disegnare un rapporto armonico tra uomo e lavoro al di là di forme di alienazione e meccanismi parassitari. Il focus non è tanto su chi lascia il lavoro perché può permetterselo, ma su come “non” possiamo permetterci di lavorare per salari disallineati da variabili esogene quali inflazione, guerre e speculazione graduale in un contesto in cui il costo della vita è in costante aumento. Ripartire dalle “grandi dimissioni” significa ridefinire il concetto stesso di lavoro all’interno una visione olistica per affrontare le sfide e le opportunità che ne derivano.